IL PRETORE A scioglimento della riserva che precede osserva Rilevato in fatto Con ricorso, depositato in data 18 ottobre 1994, Lever Marta, esperito senza esito il procedimento contenzioso amministrativo, azionava il diritto ex art. 74 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (rendita da inabilita' permanente parziale derivante da malattia di origine professionale). Esponeva la ricorrente di essere affetta da dermatite da contatto con aspetto di cheratodermia contratta nell'esercizio, dal 1981 al 1992, dell'attivita' artigiana di parrucchiera, quando aveva fatto quotidianamente uso di sostanze irritative quali fenilendiamina, resorcina ed ammoniaca. Lamentava che l'I.N.A.I.L. avesse corrisposto soltanto l'indennita' per l'inabilita' temporanea assoluta e non anche l'indennita' per l'inabilita' permanente parziale, la quale, a detta della ricorrente, era presente nella misura del 15%. Costituendosi in giudizio, l'I.N.A.I.L. negava la fondatezza della domanda attorea in base ad un duplice ordine di motivi: A) da un lato evidenziava che alla ricorrente era stata diagnosticata una dermatite da contatto di natura irritativa ossia un tipo di dermatite che non ha alla base una sensibilizzazione destinata a mantenersi invariata nel tempo anche dopo la cessazione dell'esposizione agli agenti interessati. Ne derivava che i singoli episodi di manifestazione della dermatite, essendo suscettibili di remissione, non configuravano quello stato di malattia o di permanente conseguenza di una malattia, che sono alla base dell'attribuzione da parte dell'I.N.A.I.L. di una rendita per inabilita' permanente. Ricordava a questo proposito l'orientamento della Suprema Corte, secondo cui l'inabilita' permanente da dermatosi allergica (ed a maggior ragione irritativa) presuppone una manifestazione patologica consolidata, permanente e soprattutto indipendente dal contatto con l'agente sensibilizzante e/o irritativo; B) dall'altro lato negava che la dermatite avesse determinato un'inabilita' permanente considerato che le sue conseguenze dovevano essere valutate in riferimento alla capacita' lavorativa generica (ossia alla capacita' di svolgere un qualunque lavoro manuale medio) e non alla capacita' di lavoro specifica (ossia quella esercitata al momento dell'insorgenza della malattia) ne' alla capacita' di lavoro attitudinale. Veniva disposta C.T.U., con cui si accertava che la ricorrente e' affetta da una dermatite da contatto di tipo irritativo alle mani con aspetto di cheratodermia, ad andamento cronico. A detta del C.T.U. dott. Cembrani tale affezione ha sicuramente origine professionale dato che secondo la letteratura i parrucchieri utilizzano almeno cinque grandi famiglie di prodotti responsabili della dermatite da contatto di tipo irritativo (shampoo, coloranti e decoloranti, prodotti per la permanente, profumi e lacche ed accessori professionali); non a caso si e' rilevato che tra le professioni piu' facilmente interessate dalle dermatiti irritative da contatto quella dei parrucchieri e' certamente una delle piu' segnalate. Sempre a detta del C.T.U. la dermatite, di cui e' affetta la ricorrente, si configura certamente come una malattia in quanto l'esposizione alle sostanze irritanti utilizzate ha via via ridotto l'integrita' anatomo-funzionale delle strutture di barriera della cute (il film idrolipidico e lo strato corneo), inducendo un progressivo allargamento del ventaglio delle sostanze che sono all'origine delle manifestazioni patologiche dermatologiche fino a far assumere alla dermatite un andamento cronico a causa di una sorta di automantenimento nel tempo dei meccanismi di necrosi cellulare e di flogosi, a prescindere dal contatto con le sostanze irritative utilizzate nell'attivita' professionale. Una conferma si evince dalla circostanza che nonostante l'abbandono dell'attivita' lavorativa morbigena la dermatite non e' regredita fino alla restitutio ad integrum. In ordine alle conseguenze di natura permanente della malattia professionale accertata il C.T.U. dott. Cembrani sosteneva che dovessero essere valutate non gia' in riferimento al "concetto anacronistico ed alquanto forzato della capacita' di lavoro generica, che comunque non e' assolutamente assimilabile all'attitudine al lavoro", ma richiamandosi a quelle tabelle valutative proposte dalla letteratura per la determinazione dei danni provocati dalle dermatiti professionali e contenenti parametri che "si riferiscono a tutta una serie di variabili che ben inquadrano l'attitudine lavorativa dell'individuo, ovverosia la capacita' di esprimere nel lavoro la propria personalita', di adattarla e di concretarne la duttile potenzialita'". Tra le diverse tabelle il C.T.U. sceglieva quella elaborata da Durocher e basata sull'attribuzione di un valore percentuale a ciascuna regione anatomica in relazione alla sua importanza funzionale, tenuto conto del coefficiente di interessamento fisiologico. Applicando questa tabella il C.T.U. quantificava nel 15% la diminuzione permanente all'attitudine al lavoro provocata dalla tecnopatia. Il C.T.P. dell'I.N.A.I.L. concordava sull'origine professionale e sulla natura di malattia della dermatite riscontrata sulla ricorrente. Contestava, invece, con decisione la quantificazione dell'inabilita' permanente parziale fatta dal C.T.U., richiamando la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui la perdita o la diminuzione dell'attitudine al lavoro deve essere determinata in riferimento non gia' ad una concreta capacita' di guadagno, ma alla capacita' di lavoro generica ossia alla possibilita' di esercitare un lavoro di qualsiasi genere suscettibile di utilita' economica, come e' confermato dallo stesso avverbio "essenzialmente" per l'ipotesi di inabilita' parziale e dalla tabella delle valutazioni del grado percentuale nella quale le percentuali delle menomazioni sono determinate con riferimento esclusivo al tipo di menomazione e senza alcuna considerazione del rapporto tra quest'ultima e le attitudini lavorative confacenti al singolo assicurato. Contestava in particolare l'utilizzo della tabella ideata da Durocher dato che questa fa riferimento ad un sistema di assicurazione dell'invalidita' da infortunio e malattia professionale, quali quello francese e quello belga, dove nella determinazione del grado di invalidita', al fine della costituzione di una rendita, il tasso di incapacita' reale e' determinato secondo la natura dell'infermita', lo stato generale, l'eta', le facolta' fisiche e psichiche dell'assicurato ammalato, le sue attitudini e la sua qualificazione professionale e tenendo conto di una tabella delle percentuali di invalidita' avente un valore soltanto indicativo. Di contro la disciplina ex d.P.R. n. 1124/1965 impone di avvalersi della tabella delle valutazioni del grado percentuale di inabilita' permanente, nella quale le valutazioni sono fatte in relazione alle lesioni in modo identico per tutti gli infortunati o ammalati senza tener conto delle specifiche attivita' lavorative e delle attitudini lavorative individuali. Convocato a chiarimenti, il C.T.U. ribadiva in un secondo elaborato che la capacita' di lavoro generica costituisce un parametro di giudizio che si appalesa come un artefatto tecnico ossia una "finzione" che non e' in grado di soddisfare il metodo e l'oggettivita' che devono essere richieste al medico legale. Ribadiva inoltre che l'applicazione della tabella Durocher aveva comportato che l'inabilita' conseguente alla dermatite, di cui la ricorrente era affetta, fosse stata valutata in riferimento al parametro dell'"attitudine lavorativa", che a detto dello stesso C.T.U. e' assai diverso dal concetto di "capacita' di lavoro generica". Ritenuto in diritto Viene sollevata d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale: 1) dell'art. 74 comma primo, e 2, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 qualora, in violazione dell'art. 38, comma secondo, della Costituzione, l'espressione "attitudine al lavoro", cui il legislatore ricorre per definire l'inabilita' permanente assoluta (comma primo) e l'inabilita' permanente parziale (comma secondo), venga interpretata (conformemente al consolidato orientamento della Suprema Corte) come "capacita' di lavoro generica" (ossia con riferimento a qualunque lavoro manuale medio) anziche' come "capacita' di lavoro attitudinale" (ossia con riferimento al lavoro confacente alle attitudini dell'assicurato); 2) dell'art. 78, comma primo, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 nella parte in cui dispone, in violazione dell'art. 38, comma secondo, della Costituzione che nei casi di inabilita' permanente previsti nella tabella allegato n. 1 le misure percentuali ivi indicate per ciascun caso rappresentano i criteri tassativi e non solo indicativi di determinazione della riduzione dell'attitudine al lavoro agli effetti della liquidazione della rendita, impedendo cosi' un'indagine diretta ad accertare l'effettiva riduzione della capacita' lavorativa subita dall'assicurato in relazione alle occupazione confacenti alle sue attitudini, riduzione che puo' risultare tanto superiore quanto inferiore alla percentuale risultante dall'applicazione della tabella. Sulla rilevanza nel giudizio a quo. Il giudizio in corso non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale. Applicando la norma impugnata, secondo l'interpretazione della Suprema Corte (ex plurimis di recente Cass. 6 febbraio 1992, n. 1309; Cass. 22 ottobre 1991, n. 11172; Cass. 22 agosto 1991, n. 9036 in tema di dermatosi allergica; Cass. 19 luglio 1991, n. 8058;) la domanda proposta dal ricorrente dovrebbe essere rigettata e comunque potrebbe trovare un accoglimento solo parziale. Come gia' visto, il C.T.U. ha accertato (ed il C.T.P. dell'I.N.A.I.L. ha concordato): a) che la ricorrente e' affetta da una dermatite da contatto di tipo irritativo alle mani con aspetto di cheratodermia; b) che la dermatite ha una sicura origine professionale, avendola la ricorrente contratta nel corso dello svolgimento dell'attivita' artigiana di parrucchiera nel periodo 1981-1992; c) che la dermatite, a causa del suo andamento cronico, si configura come una malattia che si manifesta anche indipendentemente dal contatto con gli agenti irritativi (ne e' una conferma la mancata restitutio ad integrum nonostante l'abbandono dell'attivita' lavorativa); quindi puo' essere sicuramente valutata come causa di riduzione dell'attitudine al lavoro ex art. 74 d.P.R. n. 1124/1965; va ricordato a questo proposito che secondo la piu' recente giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 18 marzo 1992, n. 3373; Cass. 1 febbraio 1990, n. 684; Cass. 17 ottobre 1988, n. 5647;) l'inabilita' permanente indennizzabile dall'I.N.A.I.L. non presuppone necessariamente una malattia in atto, essendo sufficiente l'attuale conseguenza permanente di una malattia passata, di talche' anche uno stato di sensibilizzazione allergica a date sostanza e' di per se' rilevante, senza che sia necessaria una manifestazione patologica cronica. Il contrasto tra le parti (e soprattutto tra il C.T.U. e C.T.P. dell'I.N.A.I.L.) e' sorto in ordine alla valutazione della riduzione permanente dell'attitudine al lavoro dell'assicurata. Il C.T.U. e' giunto alla conclusione che la dermatite ha ridotto del 15% l'attitudine al lavoro della ricorrente applicando il metodo elaborato da Durocher, il quale, per ammissione dello stesso C.T.U., comporta una valutazione dell'inabilita' conseguente alla dermatite riferita non gia' al parametro della "capacita' di lavoro generica" (che il C.T.U. considera "un artefatto tecnico ossia una finzione che non e' in grado di soddisfare il metodo e l'oggettivita' che devono essere richieste al medico legale"), ma a quello dell'"attitudine al lavoro". Invece il C.T.P. dell'I.N.A.I.L. ha negato che la dermatite abbia ridotto l'attitudine al lavoro del ricorrente applicando il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui le conseguenze permanenti degli infortuni e delle malattie professionali devono essere valutate con riferimento al parametro della capacita' di lavoro generica. Sono evidenti le ragioni per cui applicando parametri diversi si sia pervenuti in riferimento al caso in esame a conclusioni diverse a proposito della sussistenza di una riduzione dell'attitudine al lavoro della ricorrente a seguito della dermatite da cui e' affetta. Il parametro della capacita' di lavoro generica fa riferimento alla capacita' di svolgere un qualunque lavoro manuale medio; quella dell'attitudine al lavoro prende in considerazione soltanto le attivita' lavorative confacenti alle attitudini dell 'assicurato. Applicando il parametro dell'attitudine al lavoro si perviene nel caso in esame, dove l'assicurato e' una persona di 50 anni di eta', di sesso femminile ed esercente per oltre 10 anni l'attivita' di parrucchiera, ad una quantificazione in misura maggiore dell'inabilita' permanente in quanto e' notorio, come ha osservato autorevole dottrina medico-legale, che "la gamma delle occupazioni confacenti si restringe col crescere dell'eta' (per il lavoratore anziano essa finisce con l'identificarsi o quasi con l'occupazione abituale), e' variabile col sesso (la nostra struttura socio-economica e le caratteristiche culturali delle nostre popolazioni consentono, di solito, all'uomo una gamma di occupazioni piu' vasta che alla donna), e' piu' o meno ampia a seconda della qualificazione tecnico-professionale (il lavoratore molto qualificato che non possa proseguire nell'attivita' originaria corre molto piu' rischio di declassamento grave rispetto al lavoratore non qualificato)". Ben si comprende, quindi, perche' applicando la norma impugnata, secondo il gia' ricordato diritto vivente, dato dalla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la domanda proposta dal ricorrente dovrebbe essere rigettata e comunque potrebbe trovare un accoglimento solo parziale. Sulla non manifesta infondatezza. La questione di legittimita' costituzionale, qui sollevata d'ufficio, non e' manifestamente infondata. L'art. 38, comma secondo, della Costituzione e' disposizione immediatamente precettiva, che, attribuendo valore di principio fondamentale al diritto dei lavoratori a "che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidita' e vecchiaia, disoccupazione involontaria", costituisce l'attuale criterio in base al quale deve essere esercitato il sindacato di costituzionalita' sulle leggi ordinarie (Corte costituzionale 5 febbraio 1986, n. 31; Corte costituzionale 6 giugno 1974, n. 160; Corte costituzionale 26 aprile 1971, n. 80; Corte costituzionale 20 febbraio 1969, n. 22; Corte costituzionale 9 marzo 1967, n. 22). Secondo l'opinione consolidata l'assicurazione gestita dall'I.N.A.I.L. e' diretta ad indennizzare il lavoratore della perdita economica subita per effetto dell'inabilita' prodotta dall'infortunio o dalla malattia professionale. Deve trattarsi, in forza del precetto costituzionale gia' ricordato, di un indennizzo "adeguato" alle esigenze di vita del lavoratore; cio' significa che la sua situazione economica non dovrebbe risentire di alcun pregiudizio o deterioramento a seguito dell'evento lesivo subito a causa dell'attivita' lavorativa esercitata. L'assunto e' ancora piu' condivisibile dopo che la Corte costituzionale (sent. 28 gennaio 1991, n. 87), superando una prospettiva strettamente patrimoniale, ha "auspicato" l'estensione della tutela I.N.A.I.L. anche al danno biologico ossia al danno emergente costituito dalla lesione all'integrita' personale indipendente da ogni riflesso produttivo. Al contrario il riferimento ad un astratto concetto di "capacita' di lavoro generica" (il quale, come si evince dalle puntuali osservazioni del C.T.U. dott. Cembrani, non ha piu' neppure un riscontro fattuale) appare inadeguato in quei casi (come quello in esame) in cui un cambiamento di mestiere e quindi il passaggio ad un altro lavoro manuale e' in concreto assai difficile in relazione alle attitudini (e quindi all'eta', al sesso, alla preparazione tecnico-professionale ed alle esperienze pregresse) del lavoratore assicurato. In dette ipotesi la quantificazione dell'inabilita' permanente secondo il parametro della "capacita' di lavoro generica" presenta un'evidente contraddizione: si dovrebbe tener conto dell'astratta possibilita' del lavoratore infortunato (o ammalato) di svolgere altre attivita' manuali, che tuttavia, in concreto, assai difficilmente e' in grado di esercitare. Autorevole dottrina medico-legale ha osservato che il concetto di "capacita' di lavoro generica" nacque all'inizio del secolo quando ci si riferiva alla "capacita' lavorativa generica operaia" come media dei lavori industriali ed agricoli dell'epoca, molto poco differenziati e caratterizzati da prevalente impegno fisico. Non a caso nacque allora il simbolo politico della "falce e martello" vale a dire di due emblematici strumenti di lavoro agricolo e di lavoro industriale entrambi azionati solo dalla forza muscolare del lavoratore. In quell'epoca erano ben poco numerosi i tipi di "lavori umani in genere", che comprendevano quelli prevalentemente manuali, quelli impiegatizi ed alcune poche professioni intellettuali. Pertanto non era difficile tentare un'astrazione riferendosi alla "capacita' lavorativa generica" come media dei lavori di quei tempi. Ma dopo molti decenni di evoluzione tecnologica quel concetto non poteva non entrare in crisi... La capacita' di lavoro generica va dunque quanto meno "personalizzata" ovverosia ritagliata su misura della persona oggetto di esame che e' diversa da qualunque altra persona (perche' e' un individuo e non una media astratta) e perche' la menomazione va commisurata alle caratteristiche individuali (eta', sesso, abitudini, attitudini congenite ed acquisite, livello culturale e tipo e livello di preparazione professionale, stato di salute, ecc.). Ed invero la "capacita' lavorativa generica" di un ventenne e' diversa da quella di un cinquantenne; la capacita' lavorativa generica di colui il quale da trenta anni fa lo stesso lavoro (e si e' cristallizzato nell'abitudine) e' diversa da quella di colui che ha iniziato a lavorare da pochi anni (e conserva ancora un certo grado di duttilita')... Va comunque detto che anche nel quadro dell'assicurazione sociale contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali l'espressione di "capacita' lavorativa generica" e' frutto di un errore che si e' consolidato nell'uso. Infatti il d.p.r. n. 1124/1965 si riferisce ad una inabilita' permanente... la quale tolga completamente... la attitudine al lavoro... (o) riduca l'attitudine al lavoro in misura superiore al dieci per cento..." (art.74). Stabilito dunque che il T.U. non parla mai di capacita' o incapacita' "lavorativa generica" mentre fa esplicito richiamo alla attitudine al lavoro, e' palese il riferimento alle caratteristiche peculiari della singola persona oggetto di esame. Infatti le attitudini, congenite o acquisite, sono un patrimonio individuale ovverosia di ciascun singolo e cio' porta ad identificare una "specificita'" ed una "personalizzazione" del deficit anatomo funzionale... La necessita' di una valutazione dell'inabilita' permanente che tenga conto delle attitudini del singolo lavoratore assicurato impone che le misure percentuali contenute nella tabella allegato n. 1, le quali "recano valori fissi per ciascuna menomazione per cui a persone diverse (con attitudini diverse) va attribuita la stessa percentuale se la menomazione e' identica" (cosi la dottrina medico-legale gia' citata), siano considerate dei criteri non gia' tassativi, ma soltanto indicativi di determinazione della riduzione dell'attitudine al lavoro agli effetti della liquidazione della rendita. Si e' osservato (v. giurisprudenza della Suprema Corte citata dal C.T.P. dell'I.N.A.I.L.) che rapportare la determinazione del danno a quello effettivamente subito dal lavoratore infortunato in conseguenza della sua perdita o riduzione permanente della capacita' di lavoro attitudinale anziche' a quello predeterminato, in via generale, dalle tabelle in rapporto alle retribuzioni, significherebbe scardinare e rendere impossibile il sistema di previsione degli oneri finanziari di cui all'art. 39 t.u. A questo proposito parte della dottrina non ha pero' mancato di rilevare che la valutazione riferita alla capacita' di lavoro attitudinale, se da un lato comporta l'erogazione di una maggiore indennita' nel caso i postumi dell'infortunio o della malattia non consentano piu' di esercitare un'attivita' confacente alle attitudini dell'assicurato, dall'altro evita l'erogazione anzi lo sperpero di indennita' nei casi in cui la menomazione tabellata non determini in concreto una riduzione delle potenzialita' lavorativa proprie dell'assicurato. Va pure ricordato che la piu' autorevole dottrina considera tassative le percentuali tabellate "solo nel senso che non possono subire riduzioni" e ritiene possibile il loro aumento, anche se in riferimento a condizioni soltanto di natura obiettiva, quando dette condizioni "nel singolo caso di specie, accrescano l'entita' del danno tariffato". Inoltre una parte della giurisprudenza di merito sostiene che la tabella e' tassativa solo per i casi perfettamente rispondenti a quelli in essa previsti e, quindi, nel caso di riduzioni di capacita' lavorativa non rispondenti ai casi tabellati, guida nella valutazione delle conseguenze dell'infortunio o della malattia deve essere il criterio del danno economico, che deriva dalla riduzione del salario, e la tabella suddetta rappresenta solo un orientamento. Infine e' interessante osservare come in altre forme di tutela obbligatoria dell'invalidita' la nozione di capacita' di lavoro attitudinale costituisca gia' il parametro in riferimento al quale vengono valutate le conseguenze delle menomazioni. In tema di assicurazione per l'invalidita' a carico dell'I.N.P.S. e' pacifico (ex plurimis di recente Cass. 10 maggio 1995, n. 5086; Cass. 20 giugno 1994, n. 5934;) che la nozione di invalidita' ex legge 12 giugno 1984, n. 222 e' ancorata alla riduzione della capacita' di lavoro in occupazioni confacenti alle attitudini dell'assicurato, il che impone di considerare caso per caso le condizioni dell'assicurato tenendo conto della sua eta', della sua formazione e personalita' professionale intesa quale insieme delle conoscenze tecniche, delle esperienze di lavoro e della capacita' di adattamento. Di recente poi in tema di assistenza agli invalidi civili l'art. 3 d.lgs. 23 novembre 1988, n. 509 ha disposto che le percentuali di invalidita' contenute nella tabella di cui al precedente art. 2 comma primo "possono essere ridotte o aumentate dalle competenti commissioni fino a cinque punti percentuali, rispetto ai valori fissi indicati, con riferimento alle occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto, all'eventuale specifica attivita' lavorativa svolta ed alla formazione tecnico professionale del medesimo...". Il primo riferimento e' importante perche' smentisce una presunta incompatibilita' tra lo strumento assicurativo ed un criterio di determinazione delle prestazioni da erogare correlato alla capacita' attitudinale. Il secondo riferimento, che rappresenta una delle piu' recenti e radicali innovazioni introdotte nel sistema di sicurezza sociale dal legislatore ordinario, assume qui un particolare rilievo se si considera che la tutela degli invalidi civili rappresenta, nell'ottica della tradizionale concezione dualistica della sicurezza sociale accolta anche dalla Corte costituzionale (sent. n. 31/1986 cit.), una forma di attuazione del precetto costituzionale ex art. 38 comma primo, secondo il quale "ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale" mentre gli interventi a tutela degli infortunati e degli ammalati per ragioni professionali si collocano nell'ambito della previdenza sociale, nel quale signoreggia il precetto ex art. 38, comma secondo, Cost. secondo il quale "i lavoratori hanno diritto a che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidita' e vecchiaia, disoccupazione involontaria". E' consolidata l'opinione (ampiamente Corte cost. n. 31/1986 cit.) secondo cui l'art. 38, comma secondo, della Costituzione riserva una tutela piu' intensa e piu' ampia rispetto a quanto disposto dall'art. 38 coma primo, della Costituzione in favore dei cittadini inabili: "I mezzi necessari per vivere non possono identificarsi con i mezzi adeguati alle esigenze di vita: questi ultimi comprendono i primi, ma non s'esauriscono in essi. Il confronto fra le due espressioni, usate peraltro nello stesso articolo, conduce a rilevare che il costituente, privilegiando la posizione dei lavoratori, anche in considerazione del contributo di benessere offerto alla collettivita' oltreche' delle contribuzioni previdenziali prestate, nel primo comma dell'art. 38 della Costituzione garantisce ai cittadini il minimo esistenziale, i mezzi necessari per vivere, mentre nel secondo comma dello stesso articolo garantisce non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari, di pura "sussistenza" materiale bensi' anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita dei lavoratori". Allora non puo' non apparire in contrasto con la volonta' del legislatore costituzionale una disciplina ordinaria, quale quella attualmente in vigore, che prevede per i cittadini inabili una tutela piu' intensa, grazie al riferimento alla capacita' di lavoro attitudinale, di quella apprestata in favore dei lavoratori infortunati ed ammalati, per i quali le prestazioni da erogarsi in caso di inabilita' permanente vengono ancora determinate con riferimento all'obsoleto parametro della capacita' di lavoro generica.