IL PRETORE
   A scioglimento della riserva che precede osserva
                           Rilevato in fatto
   Con  ricorso,  depositato  in  data  18  ottobre 1994, Lever Marta,
 esperito senza  esito  il  procedimento  contenzioso  amministrativo,
 azionava  il  diritto  ex  art.  74  d.P.R.  30  giugno 1965, n. 1124
 (rendita da inabilita' permanente parziale derivante da  malattia  di
 origine professionale).
   Esponeva  la  ricorrente di essere affetta da dermatite da contatto
 con aspetto di cheratodermia contratta nell'esercizio,  dal  1981  al
 1992,  dell'attivita'  artigiana  di parrucchiera, quando aveva fatto
 quotidianamente uso  di  sostanze  irritative  quali  fenilendiamina,
 resorcina ed ammoniaca.
   Lamentava che l'I.N.A.I.L. avesse corrisposto soltanto l'indennita'
 per  l'inabilita'  temporanea  assoluta  e non anche l'indennita' per
 l'inabilita' permanente parziale, la quale, a detta della ricorrente,
 era presente nella misura del 15%.
   Costituendosi in giudizio, l'I.N.A.I.L. negava la fondatezza  della
 domanda attorea in base ad un duplice ordine di motivi:
    A)   da   un  lato  evidenziava  che  alla  ricorrente  era  stata
 diagnosticata una dermatite da contatto di natura irritativa ossia un
 tipo  di  dermatite  che  non  ha  alla  base  una  sensibilizzazione
 destinata  a  mantenersi invariata nel tempo anche dopo la cessazione
 dell'esposizione agli agenti interessati.
   Ne  derivava  che  i  singoli  episodi  di   manifestazione   della
 dermatite,  essendo  suscettibili  di  remissione,  non configuravano
 quello stato di malattia o di permanente conseguenza di una malattia,
 che sono alla base dell'attribuzione da parte dell'I.N.A.I.L. di  una
 rendita per inabilita' permanente.
   Ricordava  a  questo  proposito l'orientamento della Suprema Corte,
 secondo cui l'inabilita' permanente  da  dermatosi  allergica  (ed  a
 maggior  ragione irritativa) presuppone una manifestazione patologica
 consolidata, permanente e soprattutto indipendente dal  contatto  con
 l'agente sensibilizzante e/o irritativo;
     B)  dall'altro  lato  negava  che la dermatite avesse determinato
 un'inabilita' permanente considerato che le sue conseguenze  dovevano
 essere  valutate  in  riferimento  alla capacita' lavorativa generica
 (ossia alla capacita' di svolgere un qualunque lavoro manuale  medio)
 e  non alla capacita' di lavoro specifica (ossia quella esercitata al
 momento dell'insorgenza della malattia) ne' alla capacita' di  lavoro
 attitudinale.
   Veniva  disposta  C.T.U., con cui si accertava che la ricorrente e'
 affetta da una dermatite da contatto di tipo irritativo alle mani con
 aspetto di cheratodermia, ad andamento cronico.
   A detta del C.T.U. dott. Cembrani  tale  affezione  ha  sicuramente
 origine  professionale dato che secondo la letteratura i parrucchieri
 utilizzano almeno cinque grandi  famiglie  di  prodotti  responsabili
 della  dermatite da contatto di tipo irritativo (shampoo, coloranti e
 decoloranti,  prodotti  per  la  permanente,  profumi  e  lacche   ed
 accessori  professionali);  non  a  caso  si  e'  rilevato che tra le
 professioni piu' facilmente interessate dalle dermatiti irritative da
 contatto  quella  dei  parrucchieri  e'  certamente  una  delle  piu'
 segnalate.
   Sempre  a  detta  del  C.T.U.  la  dermatite,  di cui e' affetta la
 ricorrente, si configura  certamente  come  una  malattia  in  quanto
 l'esposizione  alle  sostanze irritanti utilizzate ha via via ridotto
 l'integrita' anatomo-funzionale delle  strutture  di  barriera  della
 cute  (il  film  idrolipidico  e  lo  strato  corneo),  inducendo  un
 progressivo  allargamento  del  ventaglio  delle  sostanze  che  sono
 all'origine  delle  manifestazioni  patologiche dermatologiche fino a
 far assumere alla dermatite un andamento cronico a causa di una sorta
 di automantenimento nel tempo dei meccanismi di necrosi  cellulare  e
 di  flogosi,  a  prescindere  dal contatto con le sostanze irritative
 utilizzate  nell'attivita'  professionale.    Una  conferma si evince
 dalla   circostanza   che   nonostante   l'abbandono   dell'attivita'
 lavorativa   morbigena  la  dermatite  non  e'  regredita  fino  alla
 restitutio ad integrum.
   In ordine alle conseguenze  di  natura  permanente  della  malattia
 professionale  accertata  il  C.T.U.  dott.  Cembrani  sosteneva  che
 dovessero essere  valutate  non  gia'  in  riferimento  al  "concetto
 anacronistico ed alquanto forzato della capacita' di lavoro generica,
 che  comunque  non  e'  assolutamente  assimilabile all'attitudine al
 lavoro", ma richiamandosi a quelle tabelle valutative proposte  dalla
 letteratura per la determinazione dei danni provocati dalle dermatiti
 professionali  e contenenti parametri che "si riferiscono a tutta una
 serie  di  variabili  che  ben  inquadrano  l'attitudine   lavorativa
 dell'individuo,  ovverosia  la  capacita'  di esprimere nel lavoro la
 propria personalita',  di  adattarla  e  di  concretarne  la  duttile
 potenzialita'".    Tra  le diverse tabelle il C.T.U. sceglieva quella
 elaborata  da  Durocher  e  basata  sull'attribuzione  di  un  valore
 percentuale  a  ciascuna  regione  anatomica  in  relazione  alla sua
 importanza   funzionale,   tenuto   conto   del    coefficiente    di
 interessamento  fisiologico.  Applicando  questa  tabella  il  C.T.U.
 quantificava nel 15%  la  diminuzione  permanente  all'attitudine  al
 lavoro provocata dalla tecnopatia.
   Il  C.T.P.  dell'I.N.A.I.L. concordava sull'origine professionale e
 sulla  natura  di  malattia   della   dermatite   riscontrata   sulla
 ricorrente.
   Contestava,    invece,    con    decisione    la    quantificazione
 dell'inabilita' permanente parziale fatta dal C.T.U., richiamando  la
 consolidata  giurisprudenza  della  Suprema  Corte,  secondo  cui  la
 perdita o  la  diminuzione  dell'attitudine  al  lavoro  deve  essere
 determinata  in  riferimento  non  gia'  ad una concreta capacita' di
 guadagno,  ma  alla  capacita'  di   lavoro   generica   ossia   alla
 possibilita' di esercitare un lavoro di qualsiasi genere suscettibile
 di  utilita'  economica,  come  e'  confermato  dallo stesso avverbio
 "essenzialmente" per l'ipotesi di inabilita' parziale e dalla tabella
 delle valutazioni del grado percentuale nella  quale  le  percentuali
 delle  menomazioni sono determinate con riferimento esclusivo al tipo
 di  menomazione  e  senza  alcuna  considerazione  del  rapporto  tra
 quest'ultima   e  le  attitudini  lavorative  confacenti  al  singolo
 assicurato.
   Contestava  in  particolare  l'utilizzo  della  tabella  ideata  da
 Durocher   dato   che   questa   fa  riferimento  ad  un  sistema  di
 assicurazione   dell'invalidita'    da    infortunio    e    malattia
 professionale,  quali  quello  francese  e  quello  belga, dove nella
 determinazione del grado di invalidita', al fine  della  costituzione
 di  una rendita, il tasso di incapacita' reale e' determinato secondo
 la natura dell'infermita', lo stato  generale,  l'eta',  le  facolta'
 fisiche  e psichiche dell'assicurato ammalato, le sue attitudini e la
 sua qualificazione professionale e tenendo conto di una tabella delle
 percentuali di invalidita' avente un valore soltanto indicativo.   Di
 contro la disciplina ex d.P.R. n. 1124/1965 impone di avvalersi della
 tabella   delle  valutazioni  del  grado  percentuale  di  inabilita'
 permanente, nella quale le valutazioni sono fatte in  relazione  alle
 lesioni  in  modo identico per tutti gli infortunati o ammalati senza
 tener conto delle specifiche attivita' lavorative e delle  attitudini
 lavorative individuali.
   Convocato a chiarimenti, il C.T.U. ribadiva in un secondo elaborato
 che  la  capacita'  di  lavoro  generica  costituisce un parametro di
 giudizio  che  si  appalesa  come  un  artefatto  tecnico  ossia  una
 "finzione"   che   non   e'  in  grado  di  soddisfare  il  metodo  e
 l'oggettivita'  che  devono  essere  richieste  al   medico   legale.
 Ribadiva  inoltre  che  l'applicazione  della  tabella Durocher aveva
 comportato che l'inabilita' conseguente alla  dermatite,  di  cui  la
 ricorrente  era  affetta,  fosse  stata  valutata  in  riferimento al
 parametro dell'"attitudine lavorativa",  che  a  detto  dello  stesso
 C.T.U.  e'  assai  diverso  dal  concetto  di  "capacita'  di  lavoro
 generica".
                          Ritenuto in diritto
   Viene   sollevata   d'ufficio   la   questione   di    legittimita'
 costituzionale:
     1)  dell'art. 74 comma primo, e 2, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124
 qualora,  in  violazione   dell'art.   38,   comma   secondo,   della
 Costituzione,   l'espressione   "attitudine   al   lavoro",   cui  il
 legislatore ricorre per  definire  l'inabilita'  permanente  assoluta
 (comma  primo)  e  l'inabilita'  permanente parziale (comma secondo),
 venga interpretata (conformemente al consolidato  orientamento  della
 Suprema  Corte)  come  "capacita'  di  lavoro  generica"  (ossia  con
 riferimento  a  qualunque  lavoro  manuale   medio)   anziche'   come
 "capacita'  di  lavoro attitudinale" (ossia con riferimento al lavoro
 confacente alle attitudini dell'assicurato);
     2) dell'art. 78, comma primo, d.P.R.  30  giugno  1965,  n.  1124
 nella  parte  in  cui  dispone,  in  violazione  dell'art.  38, comma
 secondo, della Costituzione che nei  casi  di  inabilita'  permanente
 previsti  nella  tabella  allegato  n.  1  le  misure percentuali ivi
 indicate per ciascun caso rappresentano i  criteri  tassativi  e  non
 solo  indicativi di determinazione della riduzione dell'attitudine al
 lavoro agli effetti della liquidazione della rendita, impedendo cosi'
 un'indagine  diretta  ad  accertare   l'effettiva   riduzione   della
 capacita'   lavorativa   subita  dall'assicurato  in  relazione  alle
 occupazione  confacenti  alle  sue  attitudini,  riduzione  che  puo'
 risultare   tanto   superiore   quanto   inferiore  alla  percentuale
 risultante dall'applicazione della tabella.
   Sulla rilevanza nel giudizio a quo.
   Il giudizio in corso non  puo'  essere  definito  indipendentemente
 dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale.
   Applicando  la  norma  impugnata,  secondo  l'interpretazione della
 Suprema Corte (ex plurimis di recente Cass. 6 febbraio 1992, n. 1309;
 Cass. 22 ottobre 1991, n. 11172; Cass. 22 agosto  1991,  n.  9036  in
 tema  di  dermatosi  allergica;  Cass.  19  luglio 1991, n. 8058;) la
 domanda proposta dal ricorrente dovrebbe essere rigettata e  comunque
 potrebbe trovare un accoglimento solo parziale.
   Come   gia'   visto,   il   C.T.U.   ha  accertato  (ed  il  C.T.P.
 dell'I.N.A.I.L.  ha concordato):
     a) che la ricorrente e' affetta da una dermatite da  contatto  di
 tipo irritativo alle mani con aspetto di cheratodermia;
     b) che la dermatite ha una sicura origine professionale, avendola
 la  ricorrente  contratta  nel corso dello svolgimento dell'attivita'
 artigiana di parrucchiera nel periodo 1981-1992;
     c)  che  la  dermatite,  a  causa  del  suo andamento cronico, si
 configura come una malattia che si manifesta anche  indipendentemente
 dal contatto con gli agenti irritativi (ne e' una conferma la mancata
 restitutio   ad   integrum   nonostante   l'abbandono  dell'attivita'
 lavorativa); quindi puo' essere sicuramente valutata  come  causa  di
 riduzione  dell'attitudine  al lavoro ex art. 74 d.P.R. n. 1124/1965;
 va  ricordato  a  questo  proposito  che  secondo  la  piu'   recente
 giurisprudenza  della  Suprema Corte (Cass.   18 marzo 1992, n. 3373;
 Cass. 1 febbraio 1990, n. 684;  Cass.  17  ottobre  1988,  n.  5647;)
 l'inabilita'   permanente   indennizzabile   dall'I.N.A.I.L.      non
 presuppone necessariamente una malattia in atto, essendo  sufficiente
 l'attuale  conseguenza permanente di una malattia passata, di talche'
 anche uno stato di sensibilizzazione allergica a date sostanza e'  di
 per  se'  rilevante,  senza  che  sia  necessaria  una manifestazione
 patologica cronica.
   Il contrasto tra le parti (e soprattutto tra  il  C.T.U.  e  C.T.P.
 dell'I.N.A.I.L.)  e' sorto in ordine alla valutazione della riduzione
 permanente dell'attitudine al lavoro dell'assicurata.
   Il C.T.U. e' giunto alla conclusione che la  dermatite  ha  ridotto
 del  15% l'attitudine al lavoro della ricorrente applicando il metodo
 elaborato da Durocher, il quale, per ammissione dello stesso  C.T.U.,
 comporta  una  valutazione dell'inabilita' conseguente alla dermatite
 riferita non gia' al parametro della "capacita' di  lavoro  generica"
 (che il C.T.U. considera "un artefatto tecnico ossia una finzione che
 non  e'  in grado di soddisfare il metodo e l'oggettivita' che devono
 essere richieste al medico legale"), ma a quello dell'"attitudine  al
 lavoro".
   Invece  il  C.T.P. dell'I.N.A.I.L. ha negato che la dermatite abbia
 ridotto  l'attitudine  al  lavoro  del   ricorrente   applicando   il
 consolidato    orientamento   giurisprudenziale,   secondo   cui   le
 conseguenze permanenti degli infortuni e delle malattie professionali
 devono essere valutate con riferimento al parametro  della  capacita'
 di lavoro generica.
   Sono  evidenti  le  ragioni per cui applicando parametri diversi si
 sia pervenuti in riferimento al caso in esame a conclusioni diverse a
 proposito della  sussistenza  di  una  riduzione  dell'attitudine  al
 lavoro della ricorrente a seguito della dermatite da cui e' affetta.
   Il parametro della capacita' di lavoro generica fa riferimento alla
 capacita'  di  svolgere  un  qualunque  lavoro  manuale medio; quella
 dell'attitudine  al  lavoro  prende  in  considerazione  soltanto  le
 attivita' lavorative confacenti alle attitudini dell 'assicurato.
   Applicando  il  parametro dell'attitudine al lavoro si perviene nel
 caso in esame, dove l'assicurato e' una persona di 50 anni  di  eta',
 di  sesso  femminile  ed  esercente  per oltre 10 anni l'attivita' di
 parrucchiera,   ad   una   quantificazione   in    misura    maggiore
 dell'inabilita'  permanente  in  quanto e' notorio, come ha osservato
 autorevole dottrina medico-legale, che "la  gamma  delle  occupazioni
 confacenti  si  restringe  col  crescere dell'eta' (per il lavoratore
 anziano essa finisce con l'identificarsi o  quasi  con  l'occupazione
 abituale),    e'   variabile   col   sesso   (la   nostra   struttura
 socio-economica  e  le   caratteristiche   culturali   delle   nostre
 popolazioni  consentono, di solito, all'uomo una gamma di occupazioni
 piu' vasta che alla donna), e' piu' o  meno  ampia  a  seconda  della
 qualificazione tecnico-professionale (il lavoratore molto qualificato
 che  non  possa proseguire nell'attivita' originaria corre molto piu'
 rischio  di  declassamento   grave   rispetto   al   lavoratore   non
 qualificato)".
   Ben  si  comprende,  quindi, perche' applicando la norma impugnata,
 secondo il gia' ricordato diritto  vivente,  dato  dalla  consolidata
 giurisprudenza   della   Suprema   Corte,  la  domanda  proposta  dal
 ricorrente dovrebbe essere rigettata e comunque potrebbe  trovare  un
 accoglimento solo parziale.
   Sulla non manifesta infondatezza.
   La   questione   di   legittimita'  costituzionale,  qui  sollevata
 d'ufficio, non e' manifestamente infondata.
   L'art.  38,  comma  secondo,  della  Costituzione  e'  disposizione
 immediatamente  precettiva,  che,  attribuendo  valore  di  principio
 fondamentale al diritto dei lavoratori  a  "che  siano  preveduti  ed
 assicurati  mezzi  adeguati  alle  loro  esigenze  di vita in caso di
 infortunio,  malattia,  invalidita'   e   vecchiaia,   disoccupazione
 involontaria",  costituisce  l'attuale criterio in base al quale deve
 essere esercitato  il  sindacato  di  costituzionalita'  sulle  leggi
 ordinarie  (Corte  costituzionale  5  febbraio  1986,  n.  31;  Corte
 costituzionale 6 giugno 1974, n. 160; Corte costituzionale 26  aprile
 1971,  n.  80;  Corte  costituzionale  20 febbraio 1969, n. 22; Corte
 costituzionale 9 marzo 1967, n. 22).
   Secondo    l'opinione    consolidata    l'assicurazione     gestita
 dall'I.N.A.I.L.    e'  diretta  ad  indennizzare  il lavoratore della
 perdita  economica  subita  per  effetto   dell'inabilita'   prodotta
 dall'infortunio o dalla malattia professionale.
   Deve   trattarsi,   in   forza  del  precetto  costituzionale  gia'
 ricordato, di un indennizzo "adeguato"  alle  esigenze  di  vita  del
 lavoratore;  cio'  significa  che  la  sua  situazione  economica non
 dovrebbe risentire di alcun pregiudizio o  deterioramento  a  seguito
 dell'evento   lesivo   subito   a   causa  dell'attivita'  lavorativa
 esercitata.
   L'assunto  e'  ancora  piu'  condivisibile  dopo   che   la   Corte
 costituzionale   (sent.  28  gennaio  1991,  n.  87),  superando  una
 prospettiva strettamente patrimoniale,  ha  "auspicato"  l'estensione
 della  tutela  I.N.A.I.L.    anche  al danno biologico ossia al danno
 emergente   costituito   dalla   lesione   all'integrita'   personale
 indipendente da ogni riflesso produttivo.
   Al  contrario  il riferimento ad un astratto concetto di "capacita'
 di  lavoro  generica"  (il  quale,  come  si  evince  dalle  puntuali
 osservazioni  del  C.T.U.  dott.  Cembrani,  non  ha  piu' neppure un
 riscontro fattuale) appare inadeguato in quei casi  (come  quello  in
 esame)  in cui un cambiamento di mestiere e quindi il passaggio ad un
 altro lavoro manuale e' in concreto assai difficile in relazione alle
 attitudini  (e  quindi  all'eta',   al   sesso,   alla   preparazione
 tecnico-professionale  ed  alle  esperienze pregresse) del lavoratore
 assicurato.
   In dette  ipotesi  la  quantificazione  dell'inabilita'  permanente
 secondo  il  parametro  della "capacita' di lavoro generica" presenta
 un'evidente contraddizione: si  dovrebbe  tener  conto  dell'astratta
 possibilita'  del  lavoratore  infortunato  (o  ammalato) di svolgere
 altre  attivita'  manuali,   che   tuttavia,   in   concreto,   assai
 difficilmente e' in grado di esercitare.
   Autorevole  dottrina  medico-legale ha osservato che il concetto di
 "capacita' di lavoro generica" nacque all'inizio del secolo quando ci
 si riferiva alla "capacita' lavorativa generica operaia"  come  media
 dei   lavori   industriali   ed   agricoli   dell'epoca,  molto  poco
 differenziati e caratterizzati da prevalente impegno  fisico.  Non  a
 caso  nacque allora il simbolo politico della "falce e martello" vale
 a dire di due emblematici strumenti di lavoro agricolo  e  di  lavoro
 industriale   entrambi   azionati  solo  dalla  forza  muscolare  del
 lavoratore. In quell'epoca erano ben poco numerosi i tipi di  "lavori
 umani  in  genere", che comprendevano quelli prevalentemente manuali,
 quelli  impiegatizi  ed  alcune  poche   professioni   intellettuali.
 Pertanto  non  era  difficile  tentare un'astrazione riferendosi alla
 "capacita' lavorativa generica" come media dei lavori di quei  tempi.
 Ma  dopo  molti  decenni  di evoluzione tecnologica quel concetto non
 poteva non entrare in crisi...
   La  capacita'  di   lavoro   generica   va   dunque   quanto   meno
 "personalizzata" ovverosia ritagliata su misura della persona oggetto
 di  esame  che  e'  diversa da qualunque altra persona (perche' e' un
 individuo e non una media  astratta)  e  perche'  la  menomazione  va
 commisurata alle caratteristiche individuali (eta', sesso, abitudini,
 attitudini congenite ed acquisite, livello culturale e tipo e livello
 di  preparazione  professionale, stato di salute, ecc.). Ed invero la
 "capacita' lavorativa generica" di un ventenne e' diversa  da  quella
 di  un  cinquantenne;  la  capacita'  lavorativa generica di colui il
 quale da trenta anni fa lo stesso  lavoro  (e  si  e'  cristallizzato
 nell'abitudine)  e'  diversa  da  quella  di  colui che ha iniziato a
 lavorare  da  pochi  anni  (e  conserva  ancora  un  certo  grado  di
 duttilita')...
   Va  comunque  detto che anche nel quadro dell'assicurazione sociale
 contro  gli  infortuni  sul  lavoro  e  le   malattie   professionali
 l'espressione  di  "capacita'  lavorativa  generica"  e' frutto di un
 errore che si e' consolidato nell'uso. Infatti il d.p.r. n. 1124/1965
 si  riferisce  ad  una  inabilita'  permanente...  la   quale   tolga
 completamente...  la  attitudine al lavoro... (o) riduca l'attitudine
 al lavoro in  misura  superiore  al  dieci  per  cento..."  (art.74).
 Stabilito dunque che il T.U. non parla mai di capacita' o incapacita'
 "lavorativa generica" mentre fa esplicito richiamo alla attitudine al
 lavoro, e' palese il riferimento alle caratteristiche peculiari della
 singola  persona oggetto di esame. Infatti le attitudini, congenite o
 acquisite,  sono  un  patrimonio  individuale  ovverosia  di  ciascun
 singolo  e  cio'  porta  ad  identificare  una  "specificita'" ed una
 "personalizzazione" del deficit anatomo funzionale...
   La necessita' di una  valutazione  dell'inabilita'  permanente  che
 tenga conto delle attitudini del singolo lavoratore assicurato impone
 che  le  misure percentuali contenute nella tabella allegato n. 1, le
 quali "recano valori fissi per ciascuna menomazione per cui a persone
 diverse (con attitudini diverse) va attribuita la stessa  percentuale
 se  la  menomazione e' identica" (cosi la dottrina medico-legale gia'
 citata),  siano  considerate  dei  criteri  non  gia'  tassativi,  ma
 soltanto indicativi di determinazione della riduzione dell'attitudine
 al lavoro agli effetti della liquidazione della rendita.
   Si  e'  osservato (v. giurisprudenza della Suprema Corte citata dal
 C.T.P. dell'I.N.A.I.L.) che rapportare la determinazione del danno  a
 quello   effettivamente   subito   dal   lavoratore   infortunato  in
 conseguenza della sua perdita o riduzione permanente della  capacita'
 di  lavoro  attitudinale  anziche'  a  quello  predeterminato, in via
 generale,   dalle   tabelle   in    rapporto    alle    retribuzioni,
 significherebbe  scardinare  e  rendere  impossibile  il  sistema  di
 previsione degli oneri finanziari di cui all'art. 39 t.u.
   A questo proposito parte della dottrina non  ha  pero'  mancato  di
 rilevare  che  la  valutazione  riferita  alla  capacita'  di  lavoro
 attitudinale, se da un lato comporta  l'erogazione  di  una  maggiore
 indennita'  nel  caso  i postumi dell'infortunio o della malattia non
 consentano piu' di esercitare un'attivita' confacente alle attitudini
 dell'assicurato, dall'altro evita l'erogazione anzi  lo  sperpero  di
 indennita'  nei casi in cui la menomazione tabellata non determini in
 concreto  una  riduzione  delle  potenzialita'   lavorativa   proprie
 dell'assicurato.
   Va  pure  ricordato  che  la  piu'  autorevole  dottrina  considera
 tassative le percentuali tabellate "solo nel senso  che  non  possono
 subire  riduzioni"  e  ritiene possibile il loro aumento, anche se in
 riferimento a condizioni soltanto di natura obiettiva,  quando  dette
 condizioni  "nel  singolo  caso  di  specie, accrescano l'entita' del
 danno tariffato".
   Inoltre una parte della giurisprudenza di merito  sostiene  che  la
 tabella  e'  tassativa  solo  per  i casi perfettamente rispondenti a
 quelli in essa previsti e, quindi, nel caso di riduzioni di capacita'
 lavorativa non rispondenti ai casi tabellati, guida nella valutazione
 delle conseguenze dell'infortunio o della  malattia  deve  essere  il
 criterio del danno economico, che deriva dalla riduzione del salario,
 e la tabella suddetta rappresenta solo un orientamento.
   Infine  e'  interessante  osservare  come  in altre forme di tutela
 obbligatoria dell'invalidita'  la  nozione  di  capacita'  di  lavoro
 attitudinale  costituisca  gia'  il parametro in riferimento al quale
 vengono valutate le conseguenze delle menomazioni.
   In tema di assicurazione per l'invalidita' a  carico  dell'I.N.P.S.
 e'  pacifico  (ex  plurimis di recente Cass. 10 maggio 1995, n. 5086;
 Cass. 20 giugno 1994, n. 5934;) che  la  nozione  di  invalidita'  ex
 legge  12  giugno  1984,  n.  222  e'  ancorata  alla riduzione della
 capacita'  di  lavoro  in  occupazioni  confacenti  alle   attitudini
 dell'assicurato,  il  che  impone  di  considerare  caso  per caso le
 condizioni dell'assicurato tenendo conto della sua  eta',  della  sua
 formazione  e  personalita'  professionale intesa quale insieme delle
 conoscenze tecniche, delle esperienze di lavoro e della capacita'  di
 adattamento.
   Di recente poi in tema di assistenza agli invalidi civili l'art.  3
 d.lgs.  23  novembre  1988,  n. 509 ha disposto che le percentuali di
 invalidita' contenute nella tabella di cui  al  precedente  art.    2
 comma  primo  "possono  essere  ridotte  o aumentate dalle competenti
 commissioni fino a cinque punti percentuali, rispetto ai valori fissi
 indicati, con riferimento alle occupazioni confacenti alle attitudini
 del soggetto, all'eventuale specifica attivita' lavorativa svolta  ed
 alla formazione tecnico professionale del medesimo...".
   Il  primo  riferimento e' importante perche' smentisce una presunta
 incompatibilita' tra lo strumento  assicurativo  ed  un  criterio  di
 determinazione  delle prestazioni da erogare correlato alla capacita'
 attitudinale.
   Il  secondo  riferimento,  che rappresenta una delle piu' recenti e
 radicali innovazioni introdotte nel sistema di sicurezza sociale  dal
 legislatore  ordinario,  assume  qui  un  particolare  rilievo  se si
 considera  che  la  tutela   degli   invalidi   civili   rappresenta,
 nell'ottica  della tradizionale concezione dualistica della sicurezza
 sociale accolta anche dalla Corte costituzionale  (sent.  n.  31/1986
 cit.), una forma di attuazione del precetto costituzionale ex art. 38
 comma  primo,  secondo  il  quale "ogni cittadino inabile al lavoro e
 sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al  mantenimento
 e  all'assistenza  sociale"  mentre  gli  interventi  a  tutela degli
 infortunati e degli ammalati per ragioni professionali  si  collocano
 nell'ambito  della  previdenza  sociale,  nel  quale  signoreggia  il
 precetto ex   art. 38, comma  secondo,  Cost.  secondo  il  quale  "i
 lavoratori  hanno  diritto  a che siano preveduti ed assicurati mezzi
 adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio,  malattia,
 invalidita' e vecchiaia, disoccupazione involontaria".
   E'  consolidata l'opinione (ampiamente Corte cost. n. 31/1986 cit.)
 secondo cui l'art. 38, comma secondo, della Costituzione riserva  una
 tutela piu' intensa e piu' ampia rispetto a quanto disposto dall'art.
 38  coma  primo,  della Costituzione in favore dei cittadini inabili:
 "I mezzi necessari per vivere non possono identificarsi con  i  mezzi
 adeguati alle esigenze di vita: questi ultimi comprendono i primi, ma
 non s'esauriscono in essi. Il confronto fra le due espressioni, usate
 peraltro   nello   stesso   articolo,   conduce  a  rilevare  che  il
 costituente, privilegiando la  posizione  dei  lavoratori,  anche  in
 considerazione del contributo di benessere offerto alla collettivita'
 oltreche' delle contribuzioni previdenziali prestate, nel primo comma
 dell'art.    38  della Costituzione garantisce ai cittadini il minimo
 esistenziale, i mezzi necessari per vivere, mentre nel secondo  comma
 dello  stesso  articolo  garantisce non soltanto la soddisfazione dei
 bisogni alimentari, di pura "sussistenza" materiale bensi'  anche  il
 soddisfacimento  di ulteriori esigenze relative al tenore di vita dei
 lavoratori".
   Allora non puo' non apparire  in  contrasto  con  la  volonta'  del
 legislatore  costituzionale  una  disciplina  ordinaria, quale quella
 attualmente in vigore, che prevede per i cittadini inabili una tutela
 piu'  intensa,  grazie  al  riferimento  alla  capacita'  di   lavoro
 attitudinale,   di   quella   apprestata  in  favore  dei  lavoratori
 infortunati ed ammalati, per i quali le prestazioni  da  erogarsi  in
 caso   di   inabilita'  permanente  vengono  ancora  determinate  con
 riferimento  all'obsoleto  parametro  della   capacita'   di   lavoro
 generica.